E poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto; come una danza arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla miseramente strappata: qualcosa di troncato, e quindi privo della sua giusta forma. Ma è così? Se, come non posso fare a meno di sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e questa potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per entrambi gli amanti, senza eccezioni, la perdita dell’altro è una parte universale e intrigante dell’esperienza d’amore. Essa segue il matrimonio con la stessa normalità con cui il matrimonio segue il corteggiamento o l’autunno l’estate. Non è un troncamento del processo, ma una delle sue fasi; non è l’interruzione della danza, ma la figura successiva.
Noi siamo “tratti fuori di noi” dall’amata fintanto che essa è qui. Poi viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare ad essere ugualmente tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea è stata tolta, dobbiamo imparare ad amare Lei, e a non ripiegare sull’amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull’amore del nostro stesso amore.
(da Diario di un dolore di C. S. Lewis)